Patrick Viveret: “Benessere, l’arte di vivere al momento giusto”

Patrick Viveret è filosofo, ex consigliere della Corte dei Conti francese e membro di numerosi movimenti di cittadinanza attiva. Quando si tratta di benessere, Viveret si mostra critico verso l’attuale organizzazione del mondo: ritiene che sia necessario modificarla affinché tutti abbiano gli strumenti e le possibilità di migliore qualità della vita.

Che cosa significa benessere per lei?

Personalmente, definisco benessere l’arte di vivere al momento giusto. Vale a dire, l’arte di vivere appieno. È questione di dire: non posso vivere tutto, fare tutto, ma quello che faccio, intendo viverlo intensamente. Di conseguenza, non inseguo una felicità effimera, non mi lascio trascinare da fortuiti colpi di fortuna, non spreco la mia energia sperando di conseguire risultati che non portano a nulla di certo o stabile. Al contrario, attribuisco a tutte le mie esperienze un valore appropriato. Noi tutti viviamo nel modo sbagliato quando ci precludiamo, per esempio, di soffrire per la perdita di una persona amata. È davvero questione di vivere la vita intensamente, e in modo costante: questo è benessere.

Lei ritiene che il corrente modello di sviluppo debba cambiare. Su quali basi filosofiche fonderebbe quello nuovo?

Dovrei ispirarmi innanzitutto al primo grande filosofo che ha affrontato il tema, ossia Spinoza. Spinoza ha evidenziato che il nocciolo della questione “benessere” sta nella contrapposizione tra Gioia e Paura. Per cui, secondo me, dovremmo coltivare maggiormente l’energia della gioia: analizzando il sistema capitalista (o i regimi dispotici o il fondamentalismo religioso che tengono sotto scacco intere popolazioni) ci si accorge facilmente che esso è governato dalla paura. Blaise Pascal ha poi sottolineato che la paura è fonte di intrattenimento – siamo intrattenuti dalla paura della morte, della malattia, della vecchiaia, e così via.

È dunque fondamentale fare della Gioia la forza che struttura l’ordine mondiale riformato. Ciò non vuol dire rinunciare a emozioni come la rabbia, l’indignazione, la riluttanza… Significa utilizzarle in maniera positiva, facendosi guidare dalla quella forza creatrice che è la gioia.
Pensa ci siano dei punti di incontro, delle similitudini tra le molteplici e alternative teorie che spiegano il mondo?

Prima di tutto, trovo molto interessante che il presente sia caratterizzato dall’incontro fra due tendenze storico-culturali – incontro che mette in dialogo civiltà. Da un lato, ci sono i movimenti che provengono dalla modernità, dalle logiche di emancipazione, dal discorso sui diritti umani: quello a difesa delle donne è uno tra i tanti. Dall’altra, ci sono movimenti che attingono alla tradizione: un esempio sono quelli che sottolineano l’importanza delle popolazioni autoctone e del loro rapporto diretto e benefico con Madre Terra.

Ora, il problema non è scegliere “da che parte stare”. La questione è riuscire ad estrapolare gli aspetti positivi di modernità e passato attraverso un confronto costruttivo tra le due istanze: creare qualcosa di completamente inedito dalla mescolanza tra sviluppo e conservazione.

I tempi recenti hanno visto l’affermazione delle libertà individuali (coscienza, espressione, identificazione), la garanzia di diritti fondamentali per l’individuo e l’emancipazione di alcuni attori sociali deboli… Sono conquiste fondamentali, che non devono andare. Tuttavia, la vita al giorno d’oggi è viziata dal materialismo, dallo sfruttamento e dalla reificazione della natura, dalla mercificazione dell’essere umano. Bisogna quindi essere capaci di dividere i vantaggi e gli svantaggi della modernità, preservare gli uni e buttar via gli altri.
Lo stesso vale per il tradizionalismo. Un suo pregio è il legame più puro e diretto con l’elemento naturale, con gli altri e con la spiritualità (intesa la ricerca di risposte alle questioni esistenziali): è un modo di rapportarsi con il mondo che la società odierna ha perso. Ma aggrapparsi insistentemente a ciò che è stato ha un difetto notevole: la dipendenza. Legami sociali stretti ed esclusivi sono forme di controllo opprimenti. Vivere in totale simbiosi con l’ambiente può diventare misantropia ecologica.

La questione dunque è costruire, attraverso un dialogo aperto, una sorta di alleanza fra le libertà della modernità e la stabilità nei legami tipica della tradizione. Per realizzare una resistenza creativa al cocktail degli orrori che viviamo tutti i giorni.L’idea è ben espressa da un amico indiano che si trova spesso nei Dialogues en Humanité: “Coca Cola and excision”. Da un lato, ad esempio, che  va bene, io apro i mercati, ma in cambio tu la smetti di danneggiare i diritti delle donne.

Secondo me è questa la posta in gioco al momento. Anche perché è un dato di fatto che un’opportunità che è evidente anche in questo creare benessere induca a individuare criteri che permettano di moltiplicare i benefici ed eliminare gli svantaggi. Il Forum International pour le Bien Vivre è stato organizzato per questo scopo!

La democrazia è in crisi, sta subendo un processo di rivalutazione a livello globale. La soluzione (o parte della soluzione) che lei propone è restaurare la funzione etica e politica degli indicatori. Essi non devono diventare gli unici strumenti attraverso cui organizzare la società: piuttosto, i dati che raccolgono devono creare opportunità di dibattito. In merito a questa opportunità, come possiamo garantire a tutti la libertà di esprimere i propri dubbi e desideri?

È molto importante prevedere nel processo democratico uno spazio dedicato al dibattito, così come esigere che il processo democratico sia corretto.

Oggi abbiamo una forma di democrazia che è insoddisfacente, perché è di tipo delegato e non partecipativo, è competitiva e quantitativa. Al momento, eleggere un/a rappresentante equivale a regalargli/le un assegno in bianco per x anni. Si tratta di una modalità elettiva troppo semplificativa, binaria, a lungo andare anche dannosa.

Si consideri poi il caso dei cosiddetti whistleblower, la cui importanza è innegabile per garantire la qualità e la correttezza del sistema democratico. Tuttavia, se pensiamo in termini quantitativi, rappresentano la minoranza di coloro che sono coinvolti nel governo di uno Stato. Perciò abbiamo bisogno di inserire nella politica criteri qualitativi, come razionalità, saggezza e consapevolezza.
Questo è ciò a cui aspiriamo attraverso il nostro network internazionale Dialogue en Humanité, la mutazione qualitativa della democrazia. Per raggiungere tale scopo abbiamo bisogno di reinserire nei processi decisionali della democrazia criteri quali la qualità della coscienza e della saggezza. Non perché altri criteri siano sbagliati, ma per avere anche in questo contesto un equilibrio tra ciò che è giusto per la democrazia (il suffragio universale) e un giusto metodo di strutturazione della democrazia (fondato necessariamente sul discernimento).
Partendo da questo assioma, naturalmente, l’analisi critica e il giudizio ragionato sono strumenti essenziali per la democrazia. Proprio come per il singolo individuo è indispensabile la partecipazione, per risolvere interrogativi suscitati dalla grande digressione etica (come compiere scelte esistenziali in situazioni complesse – poiché raramente le situazioni sono semplici) e dalla riflessione sulla politica.

Tuttavia, la partecipazione non deve equivalere a smarrirsi nelle passioni collettive o nei movimenti d’animo delle masse: in simili situazioni, essa sarebbe una forma regressiva di vita. Al contrario, la partecipazione deve trasportare il singolo verso un più alto livello di coscienza.

Spesso il pathos delle riflessioni genera conflitto. Come possiamo gestire al meglio la componente emotiva delle incomprensioni? Che cosa fare per assicurarsi che i partecipanti si sentano completamente liberi di esprimere tutti la loro tensione conflittuale?

Uno degli strumenti che abbiamo già sperimentato nei network di cittadini si chiama “costruzione del dissenso”. Si parte dall’ipotesi che ciò che è tossico non è generato dal disaccordo, ma dall’incomprensione – nel senso letterale del termine: individui che non comprendono le parole dell’altro… Si prendono in considerazione tutti i danni collaterali che questa situazione provoca, quali il sospetto e il processo alle intenzioni. Il problema che emerge è sempre che, a un certo punto, parte di un qualsiasi gruppo ha l’impressione di non essere ascoltato e quindi di essere disprezzato, e umiliato. Questo produce delle metastasi pericolose.

Ora, in un esercizio di costruzione del dissenso cerchiamo di risolvere le incomprensioni cercando di generare un dibattito – perché abbiamo capito che la maggior parte delle tensioni viene da scontri emotivi piuttosto che intellettuali. Individuiamo poi delle parole-chiave del dibattito e chiediamo a ciascun partecipante all’esercizio di partecipare a un gioco di posizione: chi percepisce la parola in modo positivo si sistema lungo un lato di un quadrato immaginario; chi ha sensazioni negative si sposta in un secondo lato; chi è in dubbio in un terzo; chi è neutro o indifferente rispetto alla parola chiave in un quarto. All’inizio, si ascoltano le ragioni che hanno portato ciascuno a scegliere un lato. E allora cominciamo a vedere movimenti all’interno del gruppo. Vedremo che incomprensioni si trasformano in veri e propri disaccordi oppure che si appianano: le persone si capiscono e nascono gruppi in cui individui che prima si credevano in disaccordo cooperano per il raggiungimento di un obiettivo comune.

Per esempio, durante un esercizio di costruzione del dissenso svolto sul tema del matrimonio per tutti in Francia abbiamo ottenuto un risultato interessante. Infatti, persone che si opponevano al matrimonio omosessuale (e che perciò erano accusate di omofobia da altre) si sono dichiarate pronte a costruire una campagna sull’omofobia. L’esercizio consente quindi di far avanzare dibattiti prima bloccati da semplici incomprensioni e di creare gruppi d’azione più forti, più incisivi.

Concretamente, il metodo si compone di tre fasi temporali. Prima di tutto, il gruppo risolve l’incomprensione attraverso un importante sforzo di intelligenza emotiva. Quindi, viene il momento interattivo durante il quale bisogna raggiungere un accordo sui termini del dibattito. Infine, si ha l’intervento dell’assemblea partecipativa. Si tratta di una fase essenziale, perché il singolo individuo è troppo immerso nelle proprie contraddizioni per risolverle in modo costruttivo. Bisogna che l’assemblea intervenga e che “obblighi” chi partecipa al dibattito a riconoscere i punti di forza nelle posizioni opposte alla sua. Non per determinare una conversione o per creare compromessi: solo per arrivare al riconoscimento!

In un dibattito sull’utilizzo dell’energia nucleare a scopi civili, per esempio, la fazione pro-nucleare ha ammesso la consistenza del pericolo comportato dai rischi accidentali del nucleare e dalle scorie nucleari. Ha chiaramente detto che, diversamente dai loro predecessori degli anni Settanta, dopo Chernobyl e Fukushima non è più possibile considerare la questione dei rischi accidentali come un dato statistico puramente teorico. Non è più consentito rimandare la ricerca di una soluzione per il problema delle scorie accidentali. In altre parole, quel gruppo ha riconosciuto una problematica oggettiva – pur senza cambiare opinione, dal momento che per altre ragioni fondamentali rimane a favore del nucleare. E rivolgendosi alla fazione anti-nucleare, ha finito con l’ammettere che, “anche se il governo volesse dichiarare l’uscita dal nucleare, siamo consapevoli che ci sarà un periodo di transizione che probabilmente durerà per decadi e durante il quale saremmo incaricati di gestire i problemi generati dall’utilizzo dell’energia nucleare”.

Nel caso appena illustrato, nessuno dei gruppi coinvolti ha cercato il compromesso o il consenso assoluto: entrambi sono rimasti nella loro posizione. Tuttavia, hanno deciso di lavorare insieme: hanno scelto di cooperare per ridurre al minimo i rischi accidentali e per trovare le soluzioni alle scorie nucleari. Questo è solo un esempio fra quelli che un cambiamento qualitativo del sistema democratico può realizzare. E vale sia quando si cerca di trasformare la violenza in confronto sia quando si tenta di fare del nemico un avversario.

Creare un dialogo, ossia trovare il modo di far sì che le persone si fermino ad ascoltare gli altri, è difficile. Soprattutto perché non siamo propensi a investire il nostro tempo così. Come pensa si possa superare questo ostacolo?

È molto importante problematizzare la velocità. Uno dei maggiori problemi della società odierna è la fretta: ogni attività deve essere svolta nel minor tempo possibile. Bisogna invece comprendere che dedicare tempo alle cose è una delle più potenti strategie di resistenza creativa e di anticipazione dell’emancipazione. Basta trascurare le poche emergenze reali a causa della fretta!

Riusciamo infatti a individuare le vere emergenze solo quando siamo calmi, quando abbiamo sangue freddo – non quando siamo di corsa… È esattamente come se volessimo imparare a pattinare sul ghiaccio: non possiamo essere stressati quando ci approcciamo al pericolo.

Quindi, la battaglia di quei movimenti operai contro le condizioni infernali delle fabbriche deve tradursi oggi nella lotta contro i ritmi infernali delle società liquide. Questo è il motivo per cui sono apparsi tutti i movimenti slow: prima lo slow food in opposizione al fast food, poi in Italia le slow city… Ora ci sono anche interi movimenti che si occupano di amore slow, perché anche le relazioni sono soggette a questa logica di prestazione, eccitazione, rapidità.

Tutto ciò rappresenta una riflessione cruciale per la questione del benessere. L’arte di vivere appieno è l’arte della capacità di percepire il tempo. E comporta una trasformazione personale e sociale: è importante aiutarsi l’un con l’altro, ad esempio con un movimento che potremmo chiamare “let’s collaborate to slow down”, perché molto spesso è difficile rallentare da soli. Se ci organizzassimo per raggiungere l’obiettivo collettivamente, sarebbe senza dubbio più facile.

Nella rete Archipel de Jours Heureux abbiamo avviato un progetto per donare il tempo. Ci diamo l’un con l’altro degli appuntamenti che poi cancelliamo all’ultimo, regalandoci così del tempo: siccome nessuno ha avuto il tempo di programmare altre al posto dell’impegno saltato, restiamo tutti con tempo libero. L’unica cosa che chiediamo è che se in quell’occasione si scopre qualcosa di nuovo o bello (per esempio guardando un film, leggendo un libro, ecc.), ci si appassiona particolarmente a qualcosa e si desidera condividere, ecco noi chiediamo che tale condivisione avvenga. Anche questo è un dono.

Vorrei farle infine una domanda più specifica sulla struttura ideale della società globale che lei desidera. Leggo che vuole indire, per il prossimo World Social Forum, un “Consiglio di sicurezza per l’umanità”. Può raccontarci qualcosa in più riguardo a questa idea e le forme che assumerà?

In effetti c’è un progetto che abbiamo discusso durante l’ultimo World Social Forum a Bahia in Salvador ed è parte di un progetto di cittadinanza globale. L’idea è togliere il dono della globalizzazione al capitalismo ma prima di tutto alle grandi mafie, all’economia criminale che al giorno d’oggi governa il mondo.

In aggiunta, vogliamo iniziare a muoverci verso quella che Edouar Glissant chiamò worldality. Per esempio, uno dei principali temi dei prossimi Dialogues en Humanité sarà il nostro Paese Terra, a dire che la nostra nazione è l’Umanità. Ciò non ci preclude di appartenere a diverse comunità nazionali, ma ci consente di sottolineare che siamo tutti membri della comunità-Terra, dove suolo e natura necessitano di essere preservati.

Così noi ci offriamo di lanciare questo grande movimento per l’emergenza della civilizzazione mondiale, a cui ci approcciamo con un Consiglio di Saggezza – per reintrodurre la saggezza nei dibattiti – ed un Consiglio di Sicurezza per l’Umanità. Chiediamo: “L’umanità è minacciata?”. La risposta è, sfortunatamente, sì. Ancora, “il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite se ne prende cura?”. Sfortunatamente, no. Così procediamo con ciò che Cornelius Castoriadis chiama procedure organizzative […]: “che cosa succederebbe se noi creassimo le condizioni per un effettivo Consiglio di Sicurezza su questioni come il potere militare sul nucleare, sulla base che c’è stata l’abolizione dell’accordo sulle armi nucleari firmato da 122 membri delle Nazioni Unite?”. Questa è un’enorme opportunità, mentre i paesi nuclearizzati stanno facendo di tutto per evitarlo.

Dopodiché vorremmo stringere una grande alleanza fra le società civili e le autorità morali e spirituali riguardo a questi temi. E vogliamo che la maggior parte delle settimane delle coscienze tenute dall’UNESCO durante il mese di marzo 2019 lanciassero l’idea che questa settimana dovrebbe essere un momento per una maggiore coscienza globale… Durante questo evento, la questione della creazione di un Consiglio di Saggezza e di un Consiglio di Sicurezza per l’Umanità sarà portata nel dibattito pubblico. Al momento stiamo anche iniziando a discutere con le autorità spirituali, abbiamo aperto un dialogo con papa Francesco con un riscontro estremamente positivo. Naturalmente abbiamo intenzione di incontrare altre autorità morali, ma non è trascurabile vedere che idee come questa stanno procedendo.