Scommessa sul clima: un sacrificio o un inevitabile toccasana per il lavoro?

di Matteo Poda, Luca Kosowski, Roberto Barbiero

Oltre ai grandi incontri decisionali dei tecnici e dei negoziatori, durante la Conferenza ONU sul Clima (COP24) a Katowice sono organizzati molti eventi di approfondimento e discussione su una gran varietà di temi legati ai cambiamenti climatici. In uno di questi eventi, incentrato sul lavoro e la transizione ecologica, abbiamo avuto la fortuna di incontrare Simona Fabiani, Responsabile politiche per il clima e l’ambiente della CIGL. Subito siamo stati accolti da un suo sorriso e dalla sua grande disponibilità: ha accettato di buon grado la nostra richiesta di concederci un’intervista su un tema molto acceso e discusso, soprattutto in Italia. L’ambiente è un tema caro a tutti, ma le cose cambiano quando nella partita entra un giocatore inaspettato: il lavoro. Che ha molto più in comune con il cambiamento climatico di quanto ci aspettiamo.


Quali sono le risposte dei lavoratori rispetto alle norme relative alla a transizione ecologica a livello globale ed italiano?

Innanzitutto, la priorità è che venga salvaguardata la vita sul pianeta perché, come ci dicono gli scienziati, noi non stiamo intervenendo in tempo. I disastri dovuti all’innalzamento della temperatura sono già sotto gli occhi di tutti: alluvioni, siccità, incendi, carestie, migrazioni forzate. Agire dal punto di vista ambientale è premessa indispensabile per salvare anche il lavoro e i diritti.
E’ evidente che, nella transizione ecologica, gli impatti sui lavoratori, soprattutto quelli del settore energetico sono forti. Qui in Polonia come in Italia: in Italia abbiamo 23 centrali a combustibili fossili che dovranno essere chiuse. Per questi lavoratori, la prima evidenza che hanno è che perderanno il posto di lavoro. E questo è vero, il sindacato non vuole negarlo, ma è vero anche che nella transizione si creerà maggiore occupazione di quella che si perderà, ci sono tantissimi studi che lo dimostrano. A questo riguardo, l’IPCC, nell’ultima parte dello special report 1,5%, specifica che le soluzioni proposte sono compatibili non solo con la transizione energetica e gli obiettivi climatici, ma anche con i quelli di sviluppo sostenibile definiti dall’ONU e da raggiungere entro il 2030. Tra gli obiettivi di sviluppo sostenibile, il numero 8 è proprio quello della piena occupazione.
Esistono enormi possibilità, ma qualcuno deve farsi carico degli aspetti sociali. L’intervento pubblico in economia è essenziale nella transizione. Lo Stato dovrebbe creare nuovi posti di lavoro, fare ricerca, innovazione, modificare i piani di studio delle università, cioè indirizzarsi completamente verso lo sviluppo sostenibile e garantire protezione sociale di tutti quei lavoratori che, anche con nuove opportunità occupazionali avranno comunque bisogno di riqualificarsi.
Inoltre, servono garanzie d’investimento, ma gli Stati stanno facendo molto poco. Sicuramente i governi subiscono le pressioni delle lobby e non fanno la loro parte. Bisogna concentrare l’attenzione anche sull’Italia e sull’Europa. Sulla questione climatica spesso si sposta l’attenzione su altri paesi ma ogni paese ha la sua parte di responsabilità.
Se guardiamo all’Europa per esempio, l’agenzia Europea per l’ambiente ha redatto pochi giorni fa un rapporto dove certifica che l’Europa non raggiungerà nemmeno il 40% di riduzione delle emissioni al 2030- impegno preso nell’Accordo di Parigi, che comunque, secondo la scienza, porterebbe ad un innalzamento di temperatura di più di 3.5 °C – ma si fermerà attorno al 32%. Con questi dati come si può dire che l’Europa sia ambiziosa se non decide di innalzare i propri impegni? Puntare il dito verso gli USA o altri paesi, come se esistessero paesi “buoni” e paesi “cattivi” è un modo per distogliere l’attenzione dalle proprie responsabilità e cercare di evitare o limitare contestazioni interne ma non aiuta la soluzione del problema. Ricordiamoci che l’azione deve essere portata avanti sia a livello globale, e siamo tutti qui per questo, ma anche a livello nazionale e locale.

Qual è il ruolo dei sindacati studenteschi nella transizione ecologica?
Il loro ruolo è fondamentale. Stiamo parlando di futuro e quindi è importante che i ragazzi e gli studenti abbiano una piena partecipazione ed un ruolo attivo nella politica per definire il loro futuro. E poi i giovani hanno energia, entusiasmo e conoscenze utili a tutto il movimento.

Che consapevolezza c’è tra i lavoratori dell’importanza della transizione ecologica?
La consapevolezza c’è, ma deve ancora crescere. Dipende anche dal tipo di lavoratori e dall’età. Per esempio, sembra ci sia molta sensibilità nei pensionati, forse anche perché oramai, essendo fuori dal mercato del lavoro, si preoccupano maggiormente per i propri figli e nipoti.
In agricoltura c’è una buona sensibilità da parte dei dirigenti sindacali. Le preoccupazioni più grandi vengono dai lavoratori delle centrali fossili, perché ogni volta che una centrale viene chiusa, cresce la preoccupazione. Nell’elaborazione della CGIL il tema dello sviluppo sostenibile e della transizione verso un’economia decarbonizzata è sempre presente. Abbiamo elaborato anche una piattaforma integrata per la contrattazione per lo sviluppo sostenibile da praticare a tutti i livelli di contrattazione ma va detto che ancora questi temi non sono patrimonio diffuso e prioritario per tutti i lavoratori e i dirigenti. C’è ancora del lavoro da fare anche a livello interno. In ogni caso, secondo me, anno dopo anno la sensibilità aumenta, un po’ come nel resto della popolazione.
Ma in primis è in campo politico che non è stata dimostrata grande sensibilità: con la Coalizione Clima prima delle elezioni politiche di marzo abbiamo chiesto degli incontri ai partiti sul tema, pochi si sono detti disponibili al confronto e quelli che ce l’hanno concesso, hanno detto che condividevano al 100% i nostri punti, dopodiché, sapete anche voi com’è andata…
Se vogliamo raggiungere lo 0% di emissioni nel 2050, è evidente che non può farlo un solo paese, e spesso viene utilizzata la scusa che partire per primi in questo processo penalizzerebbe la competitività del paese rispetto a tutti gli altri. Questa argomentazione è stata utilizzata spesso dall’Italia: ma non è vera, perché se parti per primo, cogli tutti quelli che sono i vantaggi competitivi, creando nuove filiere produttive e nuova occupazione nel tuo paese. Quindi, alla fine dei conti, è vero il contrario: sei più penalizzato se non parti per primo.
Lo Stato ha una grande responsabilità verso le comunità e i cittadini: gli imprenditori hanno l’obiettivo di fare profitti non quello di proteggere l’ambiente, la salute e l’equità sociale. Le imprese continueranno a investire nelle fonti fossili fino a quando continueranno ad essere fonte di profitto, se non verranno adottate leggi che lo impediscono o che lo rendono eccessivamente costoso. In Italia per esempio si spendono 16 miliardi all’anno in sussidi ambientalmente dannosi e per le fonti fossili. Un primo cambiamento sarebbe semplicissimo: togliere i sussidi da lì e investirli nello sviluppo sostenibile, ma nella scorsa legge di bilancio di quei sussidi non si spostato un euro.