Midterms 2018: nuova sfida per il Partito Democratico

Il 6 novembre si sono celebrate le elezioni midterm negli Stati Uniti.
Così chiamate perché avvengono alla metà del mandato presidenziale, coinvolgono in realtà i membri del Congresso statunitense, i governatori, i sindaci e altre cariche che terminano la loro durata in quest’occasione. Al Presidente, quindi, interessano per due motivi. Da una parte, ridefiniscono il Congresso, con cui la più alta carica USA deve fare i conti per amministrare il Paese. Dall’altra, tradizionalmente e popolarmente, le midterms sono considerate una sorta di referendum sulla Presidenza e il suo operato: i risultati esprimono il gradimento del popolo su quanto fatto fino a quel momento dal governo dello Stato.

Queste elezioni possono essere sicuramente interpretate come un risveglio della società statunitense, stimolata soprattutto dall’aggressiva retorica e dal disdicevole comportamento di Trump verso le donne, le minoranze etniche e culturali e verso questioni quali le migrazioni e il controllo delle armi.

Per quanto riguarda i risultati, il Partito Democratico ha preso la Camera dei Rappresentanti. Ora controlla quindi uno dei due organismi di cui si compone il Congresso: le leggi promosse da Trump devono ottenere l’approvazione anche della Camera democratica per poter entrare in vigore. I Democratici hanno ora anche la direzione delle varie Commissioni congressuali, il cui compito è la gestione di particolari aree legislative e l’esame di particolari questioni. In teoria, per i Democratici sarà possibile riprendere l’investigazione sulla sospetta collusione di Trump con la Russia nelle elezioni presidenziali del 2016, sul suo conflitto di interessi nel momento in cui è entrato in carica, sulle sue dichiarazioni dei redditi (che risultano non proprio veritiere). Per i Democratici sarà possibile anche prendere in mano la spinosa problematica del rapporto USA – cambiamenti climatici: secondo parte della stampa statunitense, il Partito Democratico vorrebbe riportare in vita la Commissione sull’Indipendenza Energetica e il Surriscaldamento Globale che, sebbene non abbia nessun potere legislativo, ha la facoltà e il compito di investigare sul cambiamento climatico prodotto dagli Stati Uniti d’America.

Queste midterms sono importanti anche perché hanno portato in Congresso un alto numero di donne, tutte rappresentati di minoranze. Ayanna Pressley (eletta in Massachusetts) e Jahana Hayes (Connecticut) sono le prime due donne afro-americane a diventare parlamentari per i rispettivi Stati. Rashida Tlaib (Michigan) e Ilhan Omar (Minnesota) sono le prime due donne musulmane a entrare in Congresso. Tlaib è poi la prima statunitense di origini palestinesi a ricoprire la carica, mentre Omar la prima ex-rifugiata somala. Veronica Escobar e Sylvia Garcia sono le prime due donne di origine ispanica a essere elette per il Texas, dove la popolazione è per più di un terzo latina. Debra Haaland (New Mexico) e Sharice Davids (Kansas) sono le prime due donne indigene (e le prime due rappresentanti del popolo nativo americano in assoluto) a sedersi nella Camera dei Rappresentanti. Davids è poi dichiaratamente omosessuale. Così come Jared Polis (Colorado), che diventa il primo governatore gay a essere eletto dopo il suo coming-out pubblico. Oltre alla causa femminile, dunque, le elezioni di metà mandato appena tenutesi hanno perorato anche quella della comunità LGBTQI.

È  uno scenario incoraggiante. Scenario reso possibile da un votanti che lo riflettono. La rivincita democratica, delle donne e della comunità LGBTQI è stata supportata da un elettorato composto soprattutto da donne, giovani che spesso si sono recati alle urne per la prima volta e dal sostegno delle minoranze etnico-culturali.

I movimenti di protesta e di attivismo hanno avuto un ruolo importante nel mobilitare la società civile, spingendo i cittadini al voto. Black Lives Matter e Women’s March hanno organizzato vere e proprie campagne mediatiche per le elezioni: utilizzando i loro siti e i loro social, hanno portato all’attenzione dei loro supporters la necessità di esprimere il proprio dissenso soprattutto attraverso il voto. March for Our Lives, il movimento soprattutto giovanile nato dopo la sparatoria nella scuola superiore di Parkland, ha fatto lo stesso. Addirittura, ha creato squadre di studenti che hanno telefonato a centinaia di cittadini per incoraggiarli a registrarsi e svolgere il loro dovere civico.

La via verso una trasformazione degli USA in un Paese più tollerante, più consapevole, più giusto sembra dunque aperta. Tuttavia, gli ostacoli da superare sono ancora molti e potenzialmente mortali.
Il Partito Repubblicano controlla ancora il Senato, dove ha aumentato la sua presenza. E il Senato è l’altra camera del Congresso, dell’organo che decide quali leggi varare e quali no. È anche il solo organismo che deve approvare la decisione del Presidente in merito alla nomina dei giudici e dei funzionari federali e alla stipula di trattati internazionali. Queste esclusive riaprono la questione della giustizia in USA, soprattutto quando essa ha a che fare con le minoranze e le donne, e la problematica dell’adesione statunitense ad accordi globali sul clima, sul commercio, ecc.

D’altro canto, il Presidente potrebbe volgere la guida democratica della Camera dei Rappresentanti a proprio vantaggio. Utilizzando la retorica dell’eccessiva opposizione, potrebbe governare a suon di ordini esecutivi: l’unico strumento per evitare lo stallo causato dai continui dissidi con i suoi avversari (colpa loro!) è forzare le sue decisioni su parte del Congresso – e parte della società. L’amministrazione diventerebbe forte sì, ma in senso negativo.
È cresciuto poi il numero di Stati governati da un Repubblicano, sintomo che la base popolare repubblicana è stretta attorno al suo presidente eletto. Lo stesso si può dire del Partito, in cui i critici di Trump diminuiscono e/o sono meno vocali. Ciò significa che Donald Trump resta il leader indiscusso dei Repubblicani.
E forse quello della leadership rappresenta il maggiore problema per i Democratici. Attualmente non c’è un esponente del partito che possa opporsi a Trump. Non esiste una figura che sappia riassumere in modo convincente le molte anime dei Democratici, arrivando ad accumulare un sostegno tanto numeroso e tanto persistente da confrontarsi alla pari con il Tycoon. Nessuno rappresenta in modo convincente la comunità LGBTQI desiderosa di diritti, gli Afro-americani desiderosi di giustizia, gli Indigeni desiderosi di rispetto, gli Ispanici desiderosi di riconoscimento, le donne desiderose di emancipazione, la parte più socialista desiderosa di essere finalmente ascoltata . Esistono diversi rappresentanti di queste istanze, soprattutto tra i nuovi eletti. Ma nessuno è un efficace riassunto di tutte insieme.

La sfida più grande del partito d’opposizione statunitense in vista delle presidenziali del 2020 è dunque questa: trovare un candidato credibile, che sappia rappresentare il partito e governare con la società. Solo allora ci sarà la possibilità del tramonto dell’era Trump.